Cultura

28 set 2025
Luna Foto di Willgard Krause da Pixabay

"Il folletto del Marsoòn", tra mondi distopici e doppie lune, un racconto di fantascienza inedito dalla penna di Vincenzo Montuori

Il sole vivido del primo mattino campiva il piazzale della stazione in riquadri di ombra e di luce e si rifletteva col suo raggio incidente nelle lenti a specchio del viaggiatore appena uscito dall’atrio, alto, nel suo soprabito leggero, la mascella ben sbarbata e il volto ancora giovanile, seppure segnato da fitte righe agli angoli della bocca. 
 
L’uomo, guardandosi attorno per trovare un taxi, aveva notato con orgoglio che, anche nella sua piccola città, ormai, le auto elettriche prevalevano su quelle tradizionali e il rumore di  fondo del traffico era notevolmente diminuito rispetto a un tempo.
 
Inoltre, il cielo gli sembrava più azzurro e pulito di una volta, con una  sfumatura “cobalto”, sebbene il sole fosse un po’ più pallido di un tempo; ma, sicuramente, la sua era solo un’impressione, dovuta al fatto che, per tanti anni, aveva vissuto nelle città assolate dell’Australia.
 
Gianmarco Avanzini si poteva ritenere soddisfatto della sua vita: era andato via da casa a poco più di venti anni, quando la fabbrica di solventi chimici fuori città era esplosa, danneggiando seriamente l’intero quartiere dove abitava. In pratica, poiché l’esplosione aveva, oltre che distrutto diverse case, gravato di una nube tossica piena di scorie cancerogene per parecchi mesi quella zona della città, il quartiere era stato evacuato e abbandonato.
 
Gianmarco non tornava da più di venti anni in città, dopo aver vissuto in modo avventuroso in Australia, con accanto donne magnifiche e di costumi abbastanza liberi con cui aveva intrecciato gioiose relazioni senza doversi impegnare  troppo; laggiù, aveva svolto diversi mestieri, specializzandosi nell’accompagnare goffi turisti europei o cinesi in “tour estremi”, in cui quei poveretti rischiavano di rimetterci le penne: li aveva portati sulle spiagge dell’oceano di notte ad assistere alla schiusa delle uova di tartaruga; li aveva scortati sulle jeep lungo le piste rosse del deserto all’inseguimento dei branchi di canguri o nelle spedizioni in canoa lungo le rapide dei fiumi del Territorio del Nord, nella zona subequatoriale, fiumi infestati da serpenti velenosi e da coccodrilli.
 
Soprattutto, aveva vissuto da persona libera, senza doversi assoggettare ai rituali della piccola città di provincia in cui era nato.
 
Finalmente, trovò un taxi e si fece condurre all’albero che aveva prenotato in centro; dopo essersi sistemato, scese a fare due passi e si accorse che la gente in giro lo fissava: per forza, lui si notava, alto con il viso abbronzato dal sole, di fronte a uomini e donne in genere slavati, quasi grigi, che procedevano - sguardo basso - nonostante lo sfolgorìo del giorno estivo.
 
Si fermò in un bar dove bevve un succo di frutta, scambiando qualche sguardo con la giovane barista, una bella ragazza mora, con due labbra piene e una pelle lattea; e allora, si chiese: ”Ma nessuno più prende il sole in questa città?”.
 
Eppure, ricordava le estati di una volta, che ci si andava ad abbronzare al fiume o si faceva il bagno in piscina; lui abitava nel quartiere lungo il fiume, nei pressi di uno stagno che i vecchi chiamavano “el Marsoòn”, una lanca paludosa e rigogliosa di vegetazione, dove si andava a passeggiare d’estate per ripararsi dall’afa. Lì, lui e la sua banda, sfuggendo alla vigilanza delle madri, passavano i pomeriggi, catturando lucertole cui mozzavano la coda, tirando sassi ai conigli selvatici e mettendo nel sacco le pigre bisce d’acqua che poi facevano  sgusciare fuori davanti agli occhi di ragazzette inorridite, godendosi lo spettacolo delle loro urla.
 
C’era una cosa sola, però, che era loro preclusa: inoltrarsi verso lo stagno all’imbrunire o di sera; chi lo aveva fatto, ne era tornato con crisi di panico  ricorrenti e violente; dicevano i vecchi, infatti, che al buio si aggirasse per quei bodri un folletto verde dalla pelle squamata, con le zampe palmate, due lunghe orecchie su un ciuffo scimmiesco e due moncherini al posto delle mani, un folletto che si divertiva a terrorizzare i malcapitati, tanto che chi ne veniva fiori diventava mezzo pazzo per sempre.
 
Gianmarco, rievocando quelle storie, ci sorrideva su, mentre girovagava tra i viali desolati del quartiere; certo, le case sembravano abbandonate da decenni e decenni; le strade invase dalle erbacce come se fosse passato un secolo e le incastellature della vecchia fabbrica  arrugginite come fossero i resti di un’archeologia industriale. Eppure erano passati solo trent’anni dall’esplosione!
 
Perso tra questi pensieri, aveva camminato fino ad attraversare tutto il quartiere e si era trovato  sulla strada sterrata che portava al “Marsoòn”: la ricordava verdeggiante di tronchi ombrosi ed ora, invece, era ridotta a una carraia polverosa, fiancheggiata da arbusti spinosi ed alberi ischeletriti: se non fosse stato  per quel sole che pendeva dal cielo in un’aria tanto rarefatta che sembrava di essere in montagna, se non fosse stato per la  vegetazione rigogliosa che si espandeva nel resto della città, avrebbe pensato di trovarsi lì in inverno.
 
Era passato da un po’ il tramonto e Gianmarco giunse in prossimità dello stagno che rifletteva nel suo smorto specchio l’ultimo lucore del giorno; ebbe l’impulso di tornare indietro, ma poi si disse: 
- Aver paura di qualche vecchia leggenda? Ma quelle erano storielle da propinare ai ragazzini! Ormai, sono un uomo adulto: vado avanti; che cosa può accadere mai?
 
Così, procedette verso lo stagno, accendendo la  torcia al cui lampeggiare gli uccelli notturni  si scuotevano e fischiavano svolacchiando infastiditi nel sonno tra i bronchi secchi. Così, andava  avanti, seguendo il rumore delle proprie suole sul terreno umido, quando sentì un verso, un grugnito forse, e uno sfrusciare impetuoso tra i cespugli: qualcosa si muoveva davanti a lui saltellando, un’ombra debolmente luminosa.
 
Puntò la torcia: la cosa si acquattò ma poi, pian piano, si erse nella radura che si apriva davanti a lui; e Gianmarco la vide. Vide quella bestia (il folletto?): un essere alto circa un metro, con la pelle a squame verdi, un muso da cui pendevano due tentacoli terminanti in due globi fosforescenti (gli occhi?) e due zampe palmate giallastre simili a quelle delle oche, una “cosa” che avanzava con un sottile squittìo verso di lui.
 
Gianmarco si irrigidì, illuminando il muso della creatura che emise un farfuglìo di suoni:
 - Qwit kubut rn, rtrstr?”*, mentre continuava ad avvicinarsi, sciaguattando con le zampe nel fango. Gianmarco cominciò a indietreggiare e incespicare mentre la cosa si approssimava; a un certo punto, dalla visuale dell’orizzonte sopra gli alberi, nell’inchiostro della notte nera, si alzarono due lune sanguigne, enormi, obnubilate da vapori foschi. Il poveretto fissò la scena terrorizzato; poi si voltò, scalciando disordinatamente nella gromma del suolo, intanto che il mostro incombeva sempre di più, grufolando, dietro di lui.
 
Nella mente del fuggiasco, memore dei primi studi giovanili, balenò un’interrogazione muta e spaventosa: “Ma qual era quel pianeta che ha due lune?”.
 
* “Che ci fai qui, terrestre ?”

Vincenzo Montuori

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