L'intervento

19 lug 2025
Milano Foto di tommaso picone da Pixabay

C'è un grattacielo nel cortile ma nessuno lo vede. Cosa ci insegna il "caso Milano" e come gli speculatori ipnotizzano le amministrazioni

Lasciando che il lavoro della Magistratura faccia il suo corso e che le responsabilità dei singoli vengano vagliate all'interno di giusti processi nei quali le difese possano esercitare i propri diritti, vorrei trarre spunto dal dibattito aperto dal "caso Milano" per mettere all'attenzione altri profili di responsabilità di carattere "collettivo" e astrarre dai fatti emersi qualche riflessione ulteriore su una certa deriva che le politiche pubbliche hanno assunto negli ultimi decenni nel rapporto con potenti soggetti privati.

Una prima considerazione riguarda in generale la scelta urbanistica operata nello specifico a Milano, con la costruzione di torri e grattacieli "esclusivi" (in senso letterale) che hanno aperto uno squarcio non solo nelle geometrie della città, ma anche nel suo tessuto sociale, rimarcando visivamente la crescita delle diseguaglianze.

Sia ben chiaro, nessuno è immune al fascino delle torri. Io stesso nel corso di qualche viaggio nelle grandi metropoli del mondo ne ho visitate, godendo per pochi istanti dell'ebbrezza di uno skyline mozzafiato, venduto generalmente come "experience", ovvero come un servizio di natura ricreativa. Esclusivo, in quanto riservato a chi possa sostenere i costi di un biglietto per accedervi pur non disponendo di patrimoni multimilionari per potervi vivere.

Eppure, ricordo ancora la sensazione di disagio quando, uscendo dalla stazione Garibaldi, mi trovai per la prima volta di fronte alle nuove torri milanesi. Esattamente come allora, anche negli anni a seguire al cospetto delle ardite architetture degli edifici della "nuova Milano" o della "nuova Torino" mi resta sempre qualcosa di non risolto nell'animo. Qualcosa di simile a un giudizio sospeso, una sensazione che solo la lettura di una recente intervista di una nota archistar (già, perché oggi li chiamano così, forse proprio per mettere in luce la loro distanza siderale dal vivere quotidiano) mi ha aiutato a comprendere.

L'architetto Joseph Di Pasquale, noto per aver realizzato uno degli edifici più impressionanti e moderni della "nuova Cina" ha infatti affermato che, in architettura come in tutti gli altri campi, non basta preoccuparsi della "tecnica", perché esiste un grande vuoto da esplorare, ciò che i nostri occhi di uomini moderni non riescono quasi più a vedere: si tratta dei valori intangibili, quelli culturali appunto che sono fatti di simboli, storia, tradizione, ma anche di narrazioni, di valori spirituali, leggende e miti. Di Pasquale definisce questo concetto con l'espressione "sostenibilità culturale" di un'opera. E sostiene che proprio laddove questa complessa valutazione non viene fatta nell'ambito della progettazione, il risultato non potrà essere altro che l'algida bellezza di contesti privi di anima.

Fa una certa impressione rileggere queste parole alla luce di quanto afferma il filosofo italiano Umberto Galimberti, il quale sostiene che proprio la tecnica e il denaro siano rimasti gli unici generatori simbolici di valori applicabili al nostro tempo ed abbiano svuotato di significato altri riferimenti etici, spirituali o culturali.

Se così fosse, toccherebbe rassegnarsi ad essere ormai anime fuori dal tempo; portatori di valori desueti. Eppure così non è. Non tutto è perduto. 

Esiste ancora un popolo che custodisce silenziosamente i germi di un modo diverso di concepire il rapporto con le nostre città e il territorio. Sono spesso attivisti ambientalisti, urbanisti (pensiamo solo al nostro compianto Massimo Terzi), ricercatori, psicologi, sociologi, giornalisti, gente comune che in modo più o meno organizzato continua a credere nel valore di territori e città più attente alla cura dell'ambiente ed alla qualità dei servizi collettivi che agli interessi dei potenti fondi speculativi che ormai controllano il debito del nostro Paese (e non solo).

Perché, malaffare o meno lo decideranno i giudici, la realtà è che nessun amministratore è in grado da solo di contrastare la pressione esercitata da soggetti economici potentissimi che per propria natura impongono la schiacciante logica del proprio interesse economico.

Senza entrare nel merito della vicenda giudiziaria, come detto in premessa, mi pare utile citare a titolo d'esempio uno dei messaggi intercettati dagli inquirenti milanesi perché descrive perfettamente la visione del mondo degli artefici di queste trasformazioni del tempo e della società: "Ci bocciate tutto, siete diventati di Potere al popolo", scriveva Stefano Boeri all'ex dirigente comunale Giovanni Oggioni lamentandosi per le valutazioni della Commissione per il paesaggio sull'operazione Pirellino.

Viviamo in un tempo in cui gli speculatori ipnotizzano le varie amministrazioni con vere e proprie tecniche manipolatorie basate, di volta in volta, sulle parole chiave "green", "sviluppo territoriale", "empowerment", "sviluppo economico del territorio", "resilienza", "eccellenza" e determinano sempre più spesso scelte politiche, urbanistiche e, talvolta, industriali che aumentano la distanza delle persone dal territorio. Spesso, causando danni all'ambiente, alla microeconomia del territorio o, più o meno direttamente, alla salute dei cittadini.

Il dissenso, quando c'è, viene sempre marginalizzato, screditato, ridicolizzato. Quel "Siete diventati di Potere al popolo" ha lo stesso sapore amaro dell'accusa agli "ambientalisti talebani" che si contrapponevano al progetto di realizzare un impianto di biometano in città (salvo constatare che poi proprio quei cittadini hanno avuto ragione su tutta la linea) o del brutale "non è più il tempo dei se, ma il tempo del come" relativo alla costruzione del nuovo ospedalino delle meraviglie di Cremona (come se un "tempo del se", fatto di percorsi partecipativi autentici, ci fosse mai stato).

Insomma, anche il linguaggio in questo tempo dà forma a un "sistema", in cui non si riesce più a riconoscere l'interesse collettivo in molte scelte di forte impatto sulle comunità, ponendoci pesso di fronte a un tema di sottrazione di spazi democratici nei processi decisionali.

Tornando al contesto milanese - una volta avremmo detto "meneghino", evocando però un universo sociale e valoriale che forse non esiste più -, questa spersonalizzazione dell'architettura è ben delineata in alcune pagine della saga del Gorilla per la penna dello scrittore cremonese Sandrone Dazieri in cui, sullo sfondo della immancabile indagine sgangherata oggetto della trama, emerge una moltitudine di invisibili che, come formiche operose, brulicano all'interno di torri di cristallo, occupandosi delle pulizie, delle manutenzioni, del giardinaggio, delle consegne e della gestione dei rifiuti, giacché i prezzi del mercato immobiliare non consentono nemmeno di vivere in periferia con i salari da fame che si ritrovano.

Uniche anime autentiche all'interno di contesti freddi e inutili che, soprattutto quando sono destinate al terziario, si svuotano la sera consegnando a interi quartieri l'aspetto apocalittico delle città coreane che fanno da ambientazione alla trama di Squid Game.

Che poi, in conclusione, quello che non abbiamo ancora capito è proprio in quale momento o contesto di partecipazione i cittadini abbiano dato mandato di devastare il tessuto delle nostre città a classi dirigenti autoreferenziali e orientate a interessi contrastanti con i beni comuni.

E questo vale per i grattacieli eretti nei cortili, come per le cinture di capannoni commerciali, gli impianti industriali o i poli logistici.

Forse è giunto il tempo di riprendere collettivamente i fili di queste riflessioni e di tornare ad orientare lo sviluppo delle città al benessere diffuso di chi le abita, partendo dalla riforestazione massiva e dalla cura del quotidiano in modo che le piazze non siano semplici spazi vuoti, ma luoghi di aggregazione e confronto. Galimberti (Umberto) aiutaci tu: davvero questa può essere un'idea fuori dal tempo?

Luigi Lipara

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