Il commento

17 nov 2025
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“Il Contributo di Equità”: quando la politica perde il coraggio di guardare in alto e sceglie di tassare lavoratori e consumi e non la vera ricchezza

C’è un’immagine che resterà come cartolina di questa stagione politica: la Presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri che, in un comizio di provincia, saltellano urlando “chi non salta è comunista”. Un siparietto da dopolavoro anni ’60, che dice molto più di mille analisi: una classe dirigente che non parla a un Paese di adulti, ma a una curva da stadio.

Nulla di illegale, per carità; ma che un premier scelga di rappresentare l’Italia così è già un messaggio politico — e non dei più lungimiranti. 

Neri contro rossi, guelfi e ghibellini. La logica dell'avversario e la fiaba dei buoni contro i cattivi. La strategia migliore per una classe politica che vuole solo autoconservarsi.

Lo stesso giorno, dall’altro lato dello spettro politico, è accaduto qualcosa di ugualmente rivelatore: Giuseppe Conte, chiamato a commentare una proposta di intervento sui grandi patrimoni, si è affrettato a prendere le distanze come se gli avessero messo in mano una bestia radioattiva. Insomna, una misura un po' troppo comunista che non è all'ordine del giorno. Aridaje.

Qualche giorno prima, lo stesso Conte, aveva ribadito che quando si parla con il Movimento 5 Stelle “non si parla con la sinistra”, ma "con una forza progressista indipendente".

Qui la contraddizione è clamorosa: un partito appena entrato nel gruppo The Left al Parlamento europeo — letteralmente “La Sinistra” — che però non è di sinistra e si vergogna di pronunciare la parola giustizia fiscale, per non sembrare troppo “rosso” e che si aggrappa a cavilli semantici per fare dei distinguo. 

Così, mentre una destra impegnata a resuscitare fantasmi del Novecento trasforma qualsiasi discussione sui grandi patrimoni in una sorta di attentato all’economia, una parte della sinistra e del campo progressista continua a muoversi come se camminasse sulle uova. Come se temesse che chiedere un contributo ai milionari equivalga a perdere il favore delle masse.  

Come se gli elettori italiani fossero un pubblico facilmente impressionabile, pronto a fuggire davanti a qualsiasi idea di equità.

Cambiare il nome per cambiare il frame

Il problema, però, è che il dibattito è sempre incastrato sulla parola sbagliata: patrimoniale. Una parola pesante, storica, agitata come uno spauracchio dagli anni ’90, usata come un grimaldello emotivo per far credere che chiunque abbia una casa, una Panda e un piccolo risparmio sia in pericolo.

Per questo serve un cambio semantico: chiamiamolo “Contributo di Equità”.

Un meccanismo semplice, lineare, che riguarda solo i grandi capitali sopra una soglia davvero alta, e che serve a riportare equilibrio in un sistema fiscale dove il lavoro paga tutto e il patrimonio quasi nulla.

Non si tratta di “togliere ai ricchi per dare ai poveri”.  È più onesto dire così: si chiede a chi ha una cospicua rendita di contribuire quanto chi vive di stipendio.

Niente rivoluzioni. Nessun esproprio. Semplicemente, un aggiustamento minimo per evitare lo smantellamento dei servizi pubblici.

Perché serve: i numeri che la politica evita di pronunciare

Quando si parla di un contributo di equità dell’1% sui patrimoni sopra i 2 milioni di euro, la platea è microscopica: meno dell’1% dei contribuenti. 350 Mila su 41 milioni.  Il grosso di quei patrimoni non deriva da lavoro già tassato, ma da tre fonti:
- rendite finanziarie, tassate pochissimo (0,2% sui depositi), spesso solo quando producono plusvalenze (26%);
- eredità milionarie, che in Italia pagano aliquote tra le più basse al mondo, con franchigie enormi;
- grandi ricchezze immobiliari e societarie, spesso oggetto di agevolazioni, detassazioni, regimi speciali.

Nel frattempo:
- il 27% dei contribuenti sostiene oltre il 70% dell’IRPEF;
- l’IVA pesa in modo regressivo su chi guadagna meno;
- cinque condoni in dieci anni hanno premiato chi non paga;
- evasione ed economia irregolare superano i 200 miliardi l’anno.

È un Paese che tassa soprattutto il lavoro dipendente e i consumi — e molto meno la ricchezza accumulata.

Eppure, ogni volta che si propone un riequilibrio, scatta una reazione organizzata, trasversale, rumorosa.  Una vera e propria coalizione di interessi che sembra avere sede ovunque: nei partiti di governo, nei talk-show, in parte del centro liberale, nei pezzi di stampa economica più sensibili agli umori dei grandi capitali.  Una specie di “comitato permanente per la difesa dei milionari”, che riesce a convincere perfino chi milionario non è — e non lo sarà mai.

L’assenza di coraggio politico

Il dramma è che questa pressione funziona.  Funziona al punto che persino forze che si definiscono progressiste o che siedono nel gruppo europeo della sinistra si affrettano a retrocedere ogni volta che si parla di riforma fiscale.  Come se temessero di essere etichettate, di perdere voti, di sembrare troppo “ideologiche”. La Schlein non ha chiuso la porta, ma lo ha fatto con il solito eloquio confuso ed è stata subito zittita dai troppi distinguo del suo partito.

Ma di ideologico, qui, non c’è proprio nulla: non c’è nessun Paese europeo avanzato che rinunci alla tassazione dei grandi patrimoni. È un tema di sostenibilità contabile e di equilibrio democratico.

Che la destra rifiuti ogni intervento redistributivo è coerente con la sua identità. Che il campo progressista fugga dalla propria missione costituzionale — quella scritta nell’articolo 53 sulla progressività — è molto meno comprensibile.

Ecco perché quelle due scene — il premier che salta gridando slogan del secolo scorso, e il leader del secondo partito d’opposizione che si ritrae come un ragazzino colto in fallo — sono la sintesi perfetta delle nostre fragilità politiche. Della politica dei sondaggi, dell'opportunismo e dei social.

La verità è che servirebbe un discorso adulto, non infantile. Un discorso che dica: che chiedere un contributo ai grandi capitali non è un atto di guerra; che non si può finanziare lo Stato sociale gravando esclusivamente su chi lavora; che senza riequilibrio fiscale non esiste né libertà economica, né ascensore sociale, né futuro per i giovani.

La domanda, allora, è semplice: chi avrà il coraggio di guardare in alto, invece di saltellare o sviare le domande?

Marco Degli Angeli

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