Il commento

13 dic 2025
Parlamento Europeo Foto di NakNakNak da Pixabay

Bandiere e hashtag senza spina dorsale: la politica europea e la sua innata capacità di indignarsi sempre in ritardo e contro il bersaglio più comodo

C’è un tratto inconfondibile nella politica europea degli ultimi anni: la capacità di indignarsi sempre in ritardo, e sempre contro il bersaglio più comodo. Oggi riscoprono il coraggio, sventolano la parola “interferenza” come se fosse una reliquia appena ritrovata, e puntano il dito contro Trump. Bene. Benissimo. Ma dove dormiva questa improvvisa spina dorsale quando a dettare la linea non era l’ex presidente americano, ma gli inquilini democratici della Casa Bianca?

Quando Biden annunciava urbi et orbi che il Nord Stream sarebbe saltato, i nostri prodi si sono esercitati nella disciplina olimpica del silenzio. Nessun soprassalto d’onore, nessun editoriale indignato, nessuna convocazione urgente del Parlamento europeo. E quando il gasdotto è effettivamente esploso, invece di chiedersi “chi, come, perché”, hanno preferito il solito rutto diplomatico anti-russo. Interferenze? Non pervenute.

Lo stesso film, anzi lo stesso copione, ogni volta che Washington ha deciso per noi. Guerre “umanitarie”, missioni “inevitabili”, conflitti per procura che si sono consumati nel cuore dell’Europa o nel suo cortile di casa. Libia, Siria, Afghanistan, Iraq: un rosario di disastri che abbiamo pagato caro, in soldi e soprattutto in credibilità. Eppure, niente. Nemmeno un sussurro di dissenso da parte di quelli che oggi si ergono a paladini della sovranità europea.

Quando a impartire ordini erano Clinton, Obama, Nuland & company, gli stessi che hanno amministrato colpi di scena geopolitici come fossero puntate di una serie TV, la nostra classe dirigente non ha aperto bocca. Neppure quando la famosa “F*** the EU” della Nuland risuonava chiarissima. Offesa all’Europa? Roba da archivio storico, evidentemente.

E così arriviamo al paradosso finale: gridano alle interferenze adesso, proprio mentre servirebbe tutto il coraggio che non hanno mai avuto per una cosa semplice, banale, scandalosa: fermare una guerra che devasta l’Ucraina e mette a rischio l’intero continente. Ma niente. La pace li terrorizza. La temono più del conflitto stesso, perché la pace toglie alibi, finanziamenti, posture da statisti che nessuno ha mai visto all’opera.

E come se non bastasse, mentre l’Europa reale è impegnata a balbettare strategie militari, l’Europa virtuale si organizza in piazza digitale: una folla social bardata di bandiere blu stellate, nata sull’onda di un’uscita di Elon Musk – che ormai parla a getto continuo e spesso fuori controllo – che ha paragonato l’UE al Terzo Reich. Apriti cielo. Una meccanica indignazione globale, e via con l’hashtag.

Ma di quale Europa parlano, esattamente? Di quella di Ursula von der Leyen, che ormai si presenta più come comandante in capo di una coalizione “volenterosa” che come presidente di un’istituzione civile? Di quella che ribadisce sostegno militare ed economico a un Paese in cui perfino il New York Times segnala un sistematico indebolimento dei controlli anticorruzione, favorito proprio dalle autorità ucraine? Di quella di Kaja Kallas, leader di fatto dell’ala militarista della Commissione, che posta video mentre testa sistemi d’arma come fossero gadget?

Se questa è l’Europa che dovremmo difendere a colpi di emoticon e bandierine digitali, permetteteci almeno un dubbio. Perché a noi questa Europa, più ansiosa di mostrarsi inflessibile quando c’è da inviare armi che quando c’è da negoziare la pace, non sembra affatto un progetto politico. Sembra un riflesso condizionato.

Difficile credere a quest’Europa che si ricorda della propria sovranità solo quando è utile alla propaganda, e la dimentica quando è il momento di alzare la voce con chi detta davvero l’agenda.

Dura impresa credere alla classe politica di un continente che applaude alla guerra e trema davanti alla pace.

Marco Degli Angeli

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Tutti gli articoli