Il commento
05 set 2025
Italia, crocevia di armi e complicità: così le nostre basi e le nostre aziende (anche lombarde) alimentano la macchina bellica israeliana
C’è un’Italia che tace, e un’Italia che arma. Un’Italia che proclama davanti alle telecamere lo stop all’export di armi verso Israele, e un’Italia che, sotto banco, continua a rifornire l’esercito che da quasi un anno devasta Gaza.
Dati ufficiali, rapporti al Parlamento e registri doganali raccontano una storia diversa dalle rassicurazioni del governo: il nostro Paese non solo esporta, ma importa tecnologia militare israeliana, la integra nei propri arsenali e mette a disposizione le basi NATO per i rifornimenti verso Tel Aviv. E la Lombardia, purtroppo, veste un ruolo da protagonista.
Licenze sospese… a metà
Dopo il 7 ottobre 2023, Giorgia Meloni aveva annunciato lo stop all’export di armamenti. La realtà è che UAMA, l’ufficio governativo che rilascia le licenze, ha semplicemente congelato i nuovi contratti, lasciando però correre quelli già attivi. Risultato: tra ottobre 2023 e giugno 2024 dall’Italia sono partite verso Israele forniture militari per decine di milioni di euro.
Armi e componenti made in Italy che finiscono dentro i jet F-35, nei droni Heron, nei sistemi d’addestramento M-346, nelle munizioni da 76 mm. Sistemi utilizzati dall’IDF non solo a Gaza, ma anche in Libano, Siria e Yemen. Non materiali “non letali”, come insiste il governo: parliamo di bombe, munizioni, tecnologie per il targeting.
Lombardia, cuore dell’industria bellica
Qui in Lombardia, aziende come Leonardo, Rheinmetall, Beretta, Aerea, Oto Melara e una miriade di subfornitori lavorano, direttamente o indirettamente, per un'industria bellica in pieno boom. A dare loro la spinta è il piano ReArm, il più grande investimento militare della storia dell’Unione Europea. Un piano pensato per “rafforzare la capacità industriale europea nel settore della difesa” e garantire forniture costanti all’Ucraina, agli eserciti del continente e non solo.
Leonardo, Tredicesima impresa di difesa nel mondo (la terza in Europa per grandezza) si descrive come «maggior produttore nonché esportatore nazionale di armamenti, nel rispetto di tutte le norme che regolamentano tale settore».
Leonardo ha più di 50 stabilimenti in Italia, ma alcuni dei più strategici sono in Lombardia:
Nerviano e Vimodrone: centri per l’elettronica di difesa e l'intelligenza artificiale militare.
Varese (Cascina Costa): quartier generale dell’elicotteristica, cuore della ex AgustaWestland.
Caronno Pertusella: produzione di sistemi radar e contromisure elettroniche.
Paderno Dugnano: lavorazioni per avionica militare e sensori di puntamento.
Qui non si producono bulloni. Si progettano tecnologie sofisticate per distruggere, colpire, neutralizzare.
Il nome più ricorrente è Leonardo ma a fare affari con Israele ci sono però anche RWM Italia (con sede a Ghedi, Brescia), MBDA, Secondo Mona (Varese), OMA, Aerea e altre aziende che producono componenti strategici.
RWM Italia, controllata dal colosso tedesco Rheinmetall, ha acquistato e rivenduto in Italia i droni “suicidi” HERO, sviluppati dalla israeliana UVision: armi già sperimentate sul campo, contro la popolazione palestinese.
Gli HERO 30 e 120 sono stati testati in Sardegna e proposti alle nostre forze speciali.
Non mancano casi che aprono interrogativi: un pagamento da oltre 33 milioni di euro effettuato da RWM verso Israele non compare nelle autorizzazioni ufficiali. Anticipo di contratti futuri? Operazioni fuori registro? Un’anomalia che resta senza risposta, e che conferma la difficoltà dei controlli.
Sigonella, il ponte militare con Israele
La Sicilia è diventata la rampa di lancio di questo sistema di complicità. Il 2 settembre scorso un cargo KC-130H dell’aviazione israeliana è atterrato a Sigonella, base NATO in provincia di Catania. Era partito dalla base di Nevatim, nel Negev, hub logistico degli attacchi su Gaza, ed è ripartito qualche ora dopo verso la stessa destinazione.
Secondo il giornalista Antonio Mazzeo, si tratta di un evento “anomalo”: da tempo non si registravano voli israeliani nelle basi italiane. Sigonella è da tempo usata dagli USA per trasporti verso Israele, ma che un aereo israeliano vi faccia scalo significa solo una cosa: le nostre infrastrutture sono ormai parte integrante del corridoio bellico che arma Tel Aviv.
Cremona non ospita grandi poli industriali della difesa, ma vive a pochi chilometri dal cuore pulsante del sistema bellico italiano: Brescia e il suo distretto delle armi leggere, Milano e il cluster aerospaziale lombardo. Qui si producono tecnologie e componenti che finiscono direttamente nei bombardamenti sull’altra sponda del Mediterraneo.
La domanda è semplice: quanto sangue palestinese scorre nei bilanci di queste aziende lombarde? E quanto il silenzio delle istituzioni locali – Regione compresa – serve a proteggere gli interessi industriali a scapito dei diritti umani?
Controlli inesistenti, responsabilità politiche
Nel 2023 su 123 aziende autorizzate a esportare armi, solo 10 hanno subito controlli, spesso solo formali. Nessuna verifica sui destinatari finali. La legge 185/90 – che vieta l’export verso Paesi responsabili di violazioni dei diritti umani – è diventata un guscio vuoto, aggirata con cavilli e interpretazioni di comodo.
Intanto, il Parlamento approva acquisti milionari di missili israeliani (92 milioni per gli Spike, maggio 2024), mentre Leonardo firma contratti con l’esercito israeliano. Tutto questo mentre Israele continua bombardamenti e assedi che l’ONU e la Corte internazionale di giustizia hanno già qualificato come crimini di guerra.
Il quadro è chiaro: l’Italia non è spettatrice, è complice. Le sue aziende, i suoi porti, le sue basi militari sono ingranaggi di una macchina che alimenta il genocidio in corso a Gaza.
Cremona, città che conosce il valore della pace e del lavoro, non può restare indifferente. Perché ogni volta che un aereo israeliano atterra a Sigonella, ogni volta che un drone HERO viene testato a Domusnovas o un componente prodotto in Lombardia finisce su un jet israeliano, un pezzo del nostro territorio diventa corresponsabile.
E allora la domanda non è se l’Italia sia complice. Lo è già. La vera domanda è: per quanto ancora siamo disposti a esserlo?
Marco Degli Angeli
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