Il commento
06 dic 2025
L’Europa che educa alla guerra: anche in Italia si addestrano i bambini all’idea di un pianeta militarizzato facendolo passare per "normalità"
C’è un filo rosso – anzi, rosso sangue – che collega il lessico edulcorato usato per descrivere i conflitti, i questionari distribuiti ai ragazzi nelle scuole italiane, i piani per addestrare gli studenti tedeschi alla gestione delle “crisi”, gli F-35 esibiti come giocattoli per bambini in piazza del Popolo e gli stanziamenti miliardari che l’Unione Europea pretende dagli Stati membri per alimentare la macchina bellica.
Quel filo conduce dritto a una verità che troppi fingono di non vedere: la guerra non è più un’eccezione, ma un progetto politico.
La normalizzazione della guerra passa dalle parole
Da anni assistiamo a un maquillage linguistico che ha un obiettivo preciso: far sembrare accettabile ciò che è inaccettabile. La guerra viene resa “preventiva”, “ibrida”, “giusta”, “di libertà”, “di difesa”. Un trucco semantico per trasformare un atto di violenza organizzata in qualcosa che rassicura, nobilita, protegge.
Prima la si muta in concetto quasi morale; poi, quando arriva davvero, nessuno è più capace di chiamarla col suo nome.
La guerra diventa “responsabilità”, “valore”, “patriottismo”. E chi non si allinea passa per ingenuo, filo-putiniano, pacifista infantile, traditore della Patria.
Questo clima culturale prende forma concreta quando lo Stato entra nelle classi e chiede ai ragazzi se sarebbero disposti ad arruolarsi. Ragazzi di quattordici anni. Il questionario, titolo “Guerra e conflitti”, è stato predisposto dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, guidata da Marina Terragni, nominata dai Presidenti di Camera e Senato – Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa – e trasmesso alle scuole tramite circolari interne di alcuni istituti.
Siamo dunque davanti a un’iniziativa istituzionale, non a un progetto didattico spontaneo di qualche scuola: lo Stato chiede direttamente ai minorenni quanto si sentirebbero pronti a “difendere il Paese” e se sarebbero disposti ad arruolarsi.
Il tutto viene presentato come un “momento di riflessione sul superamento del conflitto”, mentre si domanda a studenti non ancora maggiorenni di immaginare la propria morte, la fuga da casa, la perdita della famiglia, la devastazione della loro vita quotidiana. È pedagogia o condizionamento?
In Germania il passo è ancora più esplicito: si propongono lezioni specifiche per preparare i giovani a un conflitto futuro, con ministri che parlano apertamente di scenari di guerra “non più impossibili”. E poi ancora. I tatuaggi non da libro cuore di Calenda (che se va avanti così accuserà di essere filo Putin anche un cuoco che preparerà un’insalata russa).
Il “vinciamo noi” di Beppe Severgnini. La piazza oligarchica di Serra che divideva il modo in buoni (ovviamenti gli europei) e in barbari (tutti gli altri). Lo zainetto di sopravvivenza pubblicizzato come Vanna Marchi dalla commissaria europea Hadja Lahbib. Il ministro Crosetto che vuole reintrodurre la leva.
Dalla gestione delle emergenze alla gestione dei bombardamenti: l’evoluzione è sottile, ma la direzione è chiara.
Addestrare i bambini all’idea di un pianeta militarizzato
E poi ci sono le immagini che avrebbero dovuto indignare un intero Paese: la Presidente del Consiglio che, nel marzo 2023, durante la celebrazione dei 100 anni dell’Aeronautica militare, si siede sorridente ai comandi di un caccia F-35 in piazza del Popolo, circondata da bambini che la invocano per nome agitando il tricolore.
Un caccia bombardiere trasformato in attrazione da luna-park, la bandiera italiana ridotta a decorazione per esaltare strumenti di morte. È questo il messaggio che si vuole trasmettere alle nuove generazioni? Che la guerra è un gioco? Che un aereo che costa quanto mille stipendi di infermieri è un oggetto “bello”, “affascinante”, “normale”?
La politica italiana: governo e opposizioni uniti nella corsa alle armi
L’Italia, che nella sua Costituzione “ripudia la guerra”, nella pratica fa tutt’altro. I governi cambiano, i partiti si insultano, ma quando si tratta di armamenti la convergenza è quasi unanime.
– Draghi ha inviato obici e mezzi pesanti al fronte (con l’appoggio di tutto l’arco costituzionale. Dalla Lega ai 5 Stelle, dal PD a Fratelli d’Italia ai tempi all’opposizione).
– Meloni ha confermato e ampliato gli impegni.
– Le opposizioni “progressiste” proclamano pace mentre votano sì alle forniture militari.
Le stesse forze politiche che non trovano fondi per sanità, scuola, trasporti o salari minimi, sembrano invece pienamente d’accordo nel destinare sempre più miliardi all’acquisto di nuove armi. Miliardi per F-35, Typhoon, carri Leopard 2, CV90, Ariete.
E mentre si spendono fortune per armi ipertecnologiche, un’infermiera guadagna meno di 30.000 euro l’anno. Un treno regionale costa meno di un singolo carro armato. Un’ambulanza meno di un singolo missile.
Ogni euro che va a un carro armato viene tolto a un ospedale. Ogni caccia acquistato è una scuola che resta senza insegnanti.
Una politica che arma il presente e disarma il futuro
L’Europa parla di pace, ma investe nella guerra. L’Italia proclama valori umanitari, ma manda carri armati. Le opposizioni parlano di diritti, ma approvano bilanci militari. Si preoccupano di più dell’invasione russa, che dei furti in casa o dell’insicurezza delle nostre città o della crescita di violenza tra gli adolescenti.
E nelle scuole si abituano i ragazzi all’idea che morire in guerra possa essere un’opzione “responsabile”.
Questa è la deriva che dobbiamo denunciare: un continente che invece di costruire ponti costruisce arsenali; un Paese che invece di educare alla convivenza educa alla mobilitazione armata. La pace non si prepara con i caccia, con i carri armati, con gli F-35 in piazza, con questionari che chiedono ai quattordicenni se sono pronti a lasciarsi uccidere. La pace si prepara con la diplomazia, con la politica, con il coraggio di scegliere strade difficili ma non letali.
La politica italiana, da destra a sinistra, non sta difendendo il Paese: sta consegnando il nostro futuro a un’economia di cannoni e a una cultura di obbedienza militare. E quando persino la scuola – luogo che dovrebbe formare coscienze critiche – viene trasformata in un laboratorio di preparazione psicologica al conflitto, allora significa che la soglia è stata superata: si sta educando una generazione ad accettare come inevitabile ciò che dovrebbe essere impensabile.
Ma la guerra non è inevitabile. È una scelta politica. E chi oggi continua a finanziare armi, missili, caccia bombardieri, mentre ospedali chiudono e scuole crollano, non potrà domani nascondersi dietro la scusa dell’emergenza. E chi avrà appoggiato questa deriva sarà responsabile non solo delle bombe sganciate altrove, ma anche del declino morale, civile e sociale del proprio Paese.
Perché la verità più semplice – quella che nessun governo e nessuna opposizione vuole ammettere – è questa: se costruisci la guerra, prima o poi la guerra arriva.
Marco Degli Angeli
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