L'inchiesta
09 ott 2025
Servizio sanitario nazionale, un’arma sopra le corsie: quando il governo preferisce carri armati alle cure. Ma è più eroico comprare altri missili o salvare vite?
Siamo alle prove generali di un horror civile: da un lato un Servizio Sanitario Nazionale che boccheggia, dall’altro un governo che non trema alla prospettiva di buttare miliardi in nuovi armamenti. Non è uno scontro di priorità legittime: è un’indecenza politica.
Partiamo dai numeri. Secondo l'ultimo Rapporto GIMBE, il SSN ha registrato una perdita “reale” di €13,1 miliardi nel triennio 2023-2025, se valutato in rapporto al PIL. La sanità italiana, nel 2024, ha consumato €185,12 miliardi: €137,46 mld dal pubblico (74,3 %) e €47,66 mld dal privato, di cui €41,3 mld direttamente dalle tasche delle famiglie.
Di più: 5,8 milioni di italiani (9,9 % della popolazione) hanno rinunciato a prestazioni sanitarie.
Ora, guardiamo cosa accade sulla montagna di bilancio che chiamano “difesa”. L’Italia nel 2025 stanzierà circa €32 miliardi per la difesa (alcune voci parlano di 13 miliardi solo per nuovi armamenti) secondo l’Osservatorio Mil€x.
C’è chi sostiene che lo Stato includa voci contabili “extra” — Guardia di Finanza, Guardia Costiera, cybersicurezza — per avvicinarsi al fatidico 2 % del PIL. Di fatto, i ministeri sembrano giocare a rimpiattino con le cifre pur di dichiarare un “obiettivo raggiunto”.
Ma questo è ancora relativo rispetto alla posta in gioco: il governo intende accodarsi alla richiesta NATO di portare le spese militari totali al 5 % del PIL entro il 2035 — il che equivale a una quota “pura” di difesa del 3,5 %, se applichiamo la distinzione già ventilata tra “difesa” e “sicurezza”.
Fate i conti: portare la difesa pura al 3,5 % richiederebbe di concentrare risorse nell’ordine di oltre 100 miliardi annui rispetto ai 30-45 miliardi attuali. Nei prossimi dieci anni, si parla di oltre €400 miliardi in più rispetto allo scenario “difesa al 2 %” — soldi da togliere a sanità, istruzione, welfare o da finanziare con nuovo debito.
E non si tratta di fantascienza: alcune stime interne ipotizzano che, se l’Italia partisse da un dato reale di 1,57 % del PIL e arrivasse al 3,5 %, servirebbero circa €694 miliardi complessivi (2025-2035). Un impegno che travalica generazioni.
Insomma: da una parte si sacrifica la salute, dall’altra si finanziano decolli titanici di carri armati, programmi spaziali militari e contratti di forniture multimiliardarie. È la retorica del “mio paese forte”, del “ruolo internazionale” — che si ammanta di gloria mentre la gente perde visite, medici e speranza.
Lombardia, la “locomotiva” che arranca
E poi c’è la Lombardia, il cuore industriale e sanitario del Paese, un tempo fiore all’occhiello del sistema sanitario nazionale, oggi laboratorio del suo lento collasso. Nel 2023 la regione ha perso 14 punti nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA): in particolare, l’assistenza territoriale è crollata di 19 punti rispetto al 2022, segno di una sanità che cura sempre meno fuori dagli ospedali e sempre più tardi dentro.
Dietro le facciate delle eccellenze ospedaliere, si nasconde un sistema spaccato: il 7,2 % delle famiglie lombarde ha rinunciato a cure o prestazioni sanitarie, un dato in crescita costante.
Mancano oltre 30.000 infermieri per raggiungere gli standard europei, con reparti costretti a ricorrere a “gettonisti” e cooperative private, che costano oltre 2,5 miliardi di euro l’anno.
Le Case della Comunità, sbandierate come simbolo della riforma territoriale, sono in larga parte scatole vuote: su quelle previste, solo una manciata offre tutti i servizi minimi e personale stabile.
La Regione prova a tamponare: 111 milioni nel 2025 per “valorizzare il personale”, qualche bonus per turni notturni e reperibilità, un po’ di fondi per ridurre l’uso dei gettonisti.
Ma è come curare un’emorragia con i cerotti: la struttura perde personale, pazienti e fiducia.
Il paradosso è crudele: la Lombardia, terra che vanta i migliori ospedali e le università mediche più prestigiose, oggi è anche quella dove si paga di più per curarsi, dove i tempi di attesa sono esplosi e dove la privatizzazione strisciante è diventata sistema.
Qui si vede in miniatura il destino del Paese: il pubblico arretra, il privato avanza, il cittadino paga due volte — in tasse e in ticket — e riceve la metà.
E chi paga il prezzo? I malati cronici che non trovano più un’ambulanza, le famiglie che accantonano visite essenziali, i giovani che evitano l’università di infermieristica perché il SSN non garantisce prospettive. Sono loro il terreno di scontro, mentre i palazzi del potere chiudono il rubinetto della cura e aprono quello della corsa agli armamenti.
Non è più questione di ritardi amministrativi o di “carenze temporanee”: è la lenta agonia di un bene comune. Le Case della Comunità si contano come pupazzi in una sfilata: su 1.723 programmate, appena poche decine hanno attivato tutti i servizi e solo 46 dispongono del personale medico e infermieristico necessario. È come inaugurare teatri senza attori e pretendere che il pubblico applauda.
Che responsabilità hanno i partiti, le coalizioni e i ministri di riferimento? Hanno due scelte: difendere la salute pubblica come bene inalienabile, o prostituirsi al dio del riarmo. Già oggi, in ogni bilancio, in ogni emendamento, si decide se un euro va alla dialisi o al missile, se una direttiva serve un reparto o un drone.
Vorrei che chi firma leggi e decreti — esecutivo e Parlamento — guardasse in faccia quel 9,9 % che ha rinunciato alla cura, quel medico che se ne va e quell’anziano che resta solo.
La domanda è semplice: è più eroico comprare altri missili o salvare vite? Il destino politico e morale del Paese passerà da lì.
Marco Degli Angeli
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